Le guerre e il “fallimento” della diplomazia
28-10-2024 15:44 - Opinioni
Carlo Curti Gialdino
GD – Roma, 28 ott. 24 - La guerra è tornata in Europa, si è riaccesa in Medio Oriente e rischia di estendersi ad altri teatri. Dinanzi a questi avvenimenti e ai loro sviluppi, sotto gli occhi dell'opinione pubblica mondiale, si sente spesso ripetere che la diplomazia ha fallito o sta fallendo.
In effetti, come ha rilevato Riccardo Monaco, noto internazionalista del Novecento e mio primo maestro, «il diritto internazionale presuppone lo stato di pace, per cui la maggior parte delle sue norme hanno come base tale situazione». Ciò non significa, tuttavia, che il ricorso alle armi implichi necessariamente il silenzio del diritto. Anzi: come si legge nel preambolo della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, «le norme del diritto internazionale consuetudinario continueranno a disciplinare le questioni che non siano state espressamente regolate dalle disposizioni della presente convenzione».
Pertanto, per regolare la diplomazia nei conflitti armati si deve far riferimento, sostanzialmente, al diritto consuetudinario, che risulta dalle convenzioni di codificazione del diritto bellico e del diritto internazionale umanitario. Il diritto diplomatico contiene norme che disciplinano l'istituzione del rapporto di belligeranza e del rapporto di neutralità, lo svolgimento delle ostilità e, in particolare, il regime di occupazione militare, la sospensione delle ostilità e la restaurazione della pace.
Chi denuncia il fallimento della diplomazia pensa soprattutto a quest'ultimo obiettivo. In realtà, gli incontri dei ministri degli Esteri dell'Ucraina e della Russia ad Antalya (Turchia), all'inizio della guerra, i colloqui successivi, in via riservata, per un cessate il fuoco, le missioni ad hoc del card. Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI Conferenza Episcopale Italiana, inviato da Papa Francesco a Mosca, Kyïv, Washington e Pechino, nel giugno 2023, e di nuovo a Mosca, tra il 14 ed il 16 ottobre scorso, ove ha pure incontrato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, tutte finalizzate al ricongiungimento familiare di minori e allo scambio di prigionieri, e ancora la shuttle diplomacy del segretario di Stato americano Antony Blinken che quest'anno si è recato undici volte in Israele, dimostrano all'evidenza l'utilità della diplomazia anche quando tuonano i cannoni.
Sia in Ucraina che in Medio Oriente è facile constatare la negazione del diritto internazionale (basti pensare all'invasione da parte della Federazione russa o all'efferato attacco di Hamas a Israele) e le eclatanti violazioni delle regole “diplomatiche” anche nel senso delle consuetudini e della codificazione dello jus in bello. Ma chi afferma che la diplomazia ha fallito, le conferisce poteri e prerogative che non ha. La diplomazia, come la guerra, è uno strumento della politica. È quest'ultima che ha fallito, proprio perché non ha saputo, o voluto, ricorrere alla diplomazia.
Carlo Curti Gialdino
Vicepresidente dell'IDI Istituto Diplomatico Internazionale,
Docente di Diritto diplomatico-consolare internazionale ed europeo
Fonte: Carlo Curti Gialdino
In effetti, come ha rilevato Riccardo Monaco, noto internazionalista del Novecento e mio primo maestro, «il diritto internazionale presuppone lo stato di pace, per cui la maggior parte delle sue norme hanno come base tale situazione». Ciò non significa, tuttavia, che il ricorso alle armi implichi necessariamente il silenzio del diritto. Anzi: come si legge nel preambolo della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, «le norme del diritto internazionale consuetudinario continueranno a disciplinare le questioni che non siano state espressamente regolate dalle disposizioni della presente convenzione».
Pertanto, per regolare la diplomazia nei conflitti armati si deve far riferimento, sostanzialmente, al diritto consuetudinario, che risulta dalle convenzioni di codificazione del diritto bellico e del diritto internazionale umanitario. Il diritto diplomatico contiene norme che disciplinano l'istituzione del rapporto di belligeranza e del rapporto di neutralità, lo svolgimento delle ostilità e, in particolare, il regime di occupazione militare, la sospensione delle ostilità e la restaurazione della pace.
Chi denuncia il fallimento della diplomazia pensa soprattutto a quest'ultimo obiettivo. In realtà, gli incontri dei ministri degli Esteri dell'Ucraina e della Russia ad Antalya (Turchia), all'inizio della guerra, i colloqui successivi, in via riservata, per un cessate il fuoco, le missioni ad hoc del card. Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI Conferenza Episcopale Italiana, inviato da Papa Francesco a Mosca, Kyïv, Washington e Pechino, nel giugno 2023, e di nuovo a Mosca, tra il 14 ed il 16 ottobre scorso, ove ha pure incontrato il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, tutte finalizzate al ricongiungimento familiare di minori e allo scambio di prigionieri, e ancora la shuttle diplomacy del segretario di Stato americano Antony Blinken che quest'anno si è recato undici volte in Israele, dimostrano all'evidenza l'utilità della diplomazia anche quando tuonano i cannoni.
Sia in Ucraina che in Medio Oriente è facile constatare la negazione del diritto internazionale (basti pensare all'invasione da parte della Federazione russa o all'efferato attacco di Hamas a Israele) e le eclatanti violazioni delle regole “diplomatiche” anche nel senso delle consuetudini e della codificazione dello jus in bello. Ma chi afferma che la diplomazia ha fallito, le conferisce poteri e prerogative che non ha. La diplomazia, come la guerra, è uno strumento della politica. È quest'ultima che ha fallito, proprio perché non ha saputo, o voluto, ricorrere alla diplomazia.
Carlo Curti Gialdino
Vicepresidente dell'IDI Istituto Diplomatico Internazionale,
Docente di Diritto diplomatico-consolare internazionale ed europeo
Fonte: Carlo Curti Gialdino