Guerra russo-ucraina: cinque possibili scenari di uscita dalla crisi
11-03-2025 10:17 - Opinioni






GD – Firenze, 11 mar. 25 - A tre anni dall’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina la svolta politica annunciata dal presidente americano Trump sembrerebbe aprire una finestra d’opportunità per una pace fra Mosca e Kiev. Restano tuttavia tante incognite, a partire dall’effettiva volontà ucraina di accettare un compromesso – che in questa fase sarebbe certamente una sconfitta – e nel ruolo dell’Unione Europea e dei suoi singoli componenti, tutt’altro che concordi.
Un’analisi della situazione non può prescindere da considerazioni strategiche sugli obbiettivi dei protagonisti e tattiche sulla natura rivoluzionaria di questo conflitto rispetto a ciò che finora si era visto sui campi di battaglia.
Le novità sul campo - La guerra russo-ucraina ha sorpreso moltissimi analisti. Iniziata come “passeggiata militare” dai russi, che presumibilmente immaginavano di poter ripetere uno scenario in stile “Cecoslovacchia 1968”, il conflitto è rapidamente degenerato nella prima guerra simmetrica e ad alta intensità combattuta da diversi decenni a questa parte. L’esercito ucraino, equipaggiato e addestrato dalla NATO e rimpolpato con reparti ad altissima motivazione ideologica costituiti con elementi politici estremisti, è riuscito ad arrestare l’esercito russo attorno a Kiev e Charkov e nel Donbass sulle postazioni fortificate fin dal 2015.
Nel momento in cui la guerra ha assunto la forma simmetrica di uno scontro con relativa parità di forze fra Russia e NATO (via Ucraina), sono scomparse dalle carte geografiche le “grandi frecce” delle operazioni in profondità. In particolare, accanto al timore imposto alle due contrapposte aviazioni da parte dei sistemi antiaerei, il carro armato, protagonista della guerra negli ultimi 105 anni, ha subito una drammatica eclissi determinata dalla comparsa di armi a relativo basso costo e alta efficacia come i missili spalleggiabili Javelin americani ma soprattutto grazie al vero game changer rivelato dal conflitto: il drone.
Il vecchio tank, estremamente costoso come pezzo e come equipaggio (tre-quattro uomini con necessità di lungo addestramento) è risultato surclassato dal drone, arma che può essere utilizzata da un singolo specialista ben al sicuro dal tiro nemico. Questo ha anche ridotto notevolmente il gap fra vecchi (e vecchissimi) modelli, come i T-55 sovietici, e mezzi relativamente più nuovi, come le penultime versioni del Leopard 2, poiché i loro avversari principali non sono più i carri nemici (minaccia prettamente frontale), ma i droni (minaccia omnidirezionale).
La possibilità poi di operare con i droni giorno e notte, l’impiego della sorveglianza satellitare e dei big data su internet ha inoltre eliminato quasi completamente l’effetto sorpresa, garantendo a entrambi gli schieramenti la possibilità di conoscere con congruo anticipo le mosse dell’avversario, identificando gli assembramenti di truppe e rifornimenti propedeutici a un’offensiva.
Costretti a giocare a carte scoperte, russi e ucraini hanno intrecciato le armi in un conflitto di trincea 2.0, in cui le aree urbane rivestono un ruolo inedito dall’avvento della guerra meccanizzata. Se infatti la premessa necessaria della blitzkrieg era evitare i centri abitati e conquistarli solo in seconda battuta, il drone e le munizioni intelligenti (come l’HIMARS americano) hanno reso l’attraversamento degli spazi aperti impensabile se non a costi insostenibili. Gli stessi trinceramenti risultano vulnerabili agli attacchi dal cielo condotti con micidiali droni antiuomo. Il combattimento di fanterie in aree urbane o boschive diventa quindi la sola strada praticabile e le eccezioni viste in alcune fasi del conflitto (come la liberazione di gran parte dell’oblast di Charkov nel settembre 2022 e l’incursione ucraina verso Kursk) sono state possibili solo a fronte di una relativa bassa densità del dispositivo di difesa russo. Altrove, come nel tentativo ucraino di raggiungere la costa del Mar d’Azov durante l’estate 2023, le puntate offensive corazzate si sono risolte in un massacro, non potendo del resto fare affidamento né nell’effetto sorpresa né nel vantaggio dell’iniziativa che avevano gli attaccanti nel passato, con il quale potevano garantirsi una relativa superiorità numerica nei settori di fronte in cui decidevano di aprire l’offensiva.
La conclusione è che questo conflitto, a meno del collasso di uno dei due contendenti – tattico o politico per gli ucraini, solo politico per i russi – non potrà procedere oltre che per lentissime avanzate. La stessa controffensiva che in queste ore l’esercito ucraino sta conducendo nell’abitato di Toretsk (che i russi hanno quasi completamente conquistato, rinominandolo con la vecchia nomenclatura sovietica di Dzerzhynsk), si sta sviluppando su una direttrice non più profonda di 500-1.000 metri, nonostante l’evidente impegno di forze dispiegato da Kiev.
La Russia e gli obbiettivi del Cremlino - Mosca in questo momento è in una posizione di oggettivo vantaggio. Ciò dà al Cremlino la possibilità di far valere le proprie ragioni più che gli altri belligeranti in sede di trattativa perché la sua mano di carte è migliore di quella degli avversari.
La Russia ha come obbiettivo primario quello di impedire definitivamente l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Questo risultato non può essere considerato compiutamente raggiunto senza la cosiddetta “denazificazione” del paese, che va intesa come una purga degli elementi più oltranzisti e antirussi negli apparati di Kiev.
Come obbiettivo secondario Mosca pretende il riconoscimento dell’annessione dei cinque oblast ucraini occupati fin dal 2014, Crimea innanzitutto, nei quali si sono tenuti dei referendum che impongono alla Russia la necessità di tenere il punto su di essi, compresa la parte di territorio rivendicata ma non ancora occupata, per questioni di prestigio interno ed estero.
Secondo diversi osservatori, l’occupazione integrale dell’Ucraina non è fra gli obbiettivi di Mosca, e tuttavia la creazione di una “fascia di sicurezza” negli oblast settentrionali del paese e di un’ipoteca sulla costa dalla foce del Dnepr a quella del Danubio restano opzioni più volte ventilate dai “falchi” del Cremlino, agitando queste ipotesi come minacce di una sorte più dura da imporre a Kiev a guerra finita.
Appare improbabile che la Russia riesca a puntare a una conquista di Nikolajev e Odessa, che tuttavia, per motivi sentimentali e strategici (la chiusura del Mar Nero a nord e l’apertura di un canale di terra verso la Transnistria) potrebbe diventare una priorità se si aprisse una finestra di opportunità.
Le carte in mano a Mosca - L’esercito russo si trova saldamente installato nel territorio ucraino e rispetto all’inizio del conflitto è ora in condizioni molto migliori, soprattutto per addestramento e coesione. Il dispositivo militare russo in Ucraina può disporre di alcune centinaia di migliaia di veterani esperti nelle nuove forme di combattimento di fanteria e con i droni.
La Russia gode di un enorme margine industriale sull’Ucraina e suoi suoi alleati ancora disposti a fornire mezzi e materiali. La sola produzione di munizioni d’artiglieria russa è stimata in diverse volte quella dell’intera NATO. Mosca può inoltre fare affidamento sulle linee di produzione della Corea del Nord, che si è rivelata tutt’altro che disprezzabile come fornitore di munizionamento.
La comparsa del missile a medio raggio ipersonico 'Oreshnik' ha inoltre dato a Mosca un’arma di deterrenza formidabile, in grado di scoraggiare qualunque aggressione diretta ai suoi obbiettivi vitali. L’'Oreshnik', infatti, è virtualmente inarrestabile e parrebbe dotato di una grande precisione sul bersaglio, caratteristiche che lo rendono l’arma ideale per rappresaglie ad alto impatto politico: è infatti possibile dichiarare il bersaglio, dando al nemico appena il tempo sufficiente per evacuare il personale prima che esso venga distrutto con testate non nucleari. Si infliggerebbe così un colpo non solo materiale ma anche morale all’avversario.
Infine, nonostante i primi segni di stanchezza nell’opinione pubblica russa, soprattutto a Mosca e San Pietroburgo, la Russia appare in grado di poter proseguire il conflitto con questi ritmi di logoramento reciproco verso l’Ucraina, in considerazione del fatto che una guerra perdurante è tutt’ora l’unica garanzia che il principale obbiettivo politico russo, impedire a Kiev di entrare nella NATO, sia soddisfatto. Inoltre diverse voci stanno affermando che la Russia stia accumulando una notevole massa di manovra per un colpo da nord verso sud, da realizzarsi con la buona stagione. Qualora i russi dovessero riuscire a ottenere una schiacciante superiorità numerica in quel settore, potremmo allora assistere alla ricomparsa delle “grandi frecce” sulla carta del conflitto.
Il fronte NATO-Ucraina - Le strategie degli alleati - Meno netti appaiono gli orizzonti strategici del fronte (ormai ex-fronte) NATO-Ucraina. Per Kiev l’obbiettivo ideale è la liberazione dell’intero territorio nazionale al 2014, Crimea inclusa. Un risultato che appare quasi completamente irrealistico, salvo svolte imponderabili.
A sua volta, l’obbiettivo dell’UE e della precedente amministrazione di Washington era infliggere a Mosca una sconfitta strategica di proporzioni tali da provocare un crollo interno della democrazia russa attraverso possibili colpi di Stato. Non pochi ambienti fra i più estremisti in Europa e Stati Uniti accarezzano addirittura la possibile balcanizzazione della Russia. Questi obbiettivi sembravano realistici all’inizio del conflitto, a portata di mano del combinato disposto della resistenza ucraina sul campo e delle sanzioni sul fronte interno.
Tuttavia la Russia si è dimostrata all’altezza della propria storia di grande incassatore e le ritirate strategiche – compresa la dolorosa perdita di Cherson e Kupjansk – non sono state in grado di suscitare più che qualche cambio di vertice fra ministero della Difesa e forze armate. La possibilità dunque di un golpe al Cremlino appare alquanto improbabile. Ciò, unito al cambio di passo alla Casa Bianca, ha portato a una biforcazione delle politiche degli alleati occidentali.
Gli obbiettivi ucraini - Per Kiev, dimostrata l’impossibilità di imporre alla Russia una sconfitta strategica sul campo, l’orizzonte è quello di arginare l’avanzata russa costringendo Mosca a pagare a prezzo salato ogni metro quadro conquistato. Diversi osservatori affermano che l’esercito ucraino starebbe ammassando riserve per tentare un nuovo colpo di mano in territorio russo, forse nell’oblast di Belgorod, mentre proprio in queste ore sul fronte orientale le forze ucraine hanno lanciato una controffensiva in forze a Toretsk, i cui risultati si misurano in poche centinaia di metri d’avanzata. Sfumata la possibilità di raggiungere con un blitz la centrale nucleare di Kursk, il saliente realizzato in quella parte di territorio russo resta una carta che Kiev può giocarsi in sede di trattativa, da scambiare con lo sgombero da parte russa di porzioni di terra ucraina.
Le carte in mano a Kiev - L’Ucraina si trova in una condizione drammatica. Se già prima del conflitto era il Paese più povero e corrotto del continente europeo, ora esso deve affrontare anche una disastrosa crisi demografica determinata non solo dalle perdite sul campo, paragonabili a quelle dell’Italia nella Prima guerra mondiale, ma anche dalla fuga in Europa e in Russia di milioni di persone.
L’improvviso taglio alle forniture militari e all’assistenza strategica da parte americana, decretata da Donald Trump dopo l’intemerata di Volodimir Zelensky alla Casa Bianca lo scorso 28 febbraio, priva Kiev della possibilità di pianificare ulteriori operazioni in grande stile e anche a livello logistico la fine dell’assistenza USA al ripristino delle infrastrutture elettriche potrebbe avere effetti letali sia sulla piccola produzione industriale del paese che sulla tenuta del fronte interno.
Al suo arco, tuttavia, l’Ucraina ha alcune frecce. Innanzitutto un esercito composto da veterani induriti e galvanizzati, non solo nei reparti politicamente più fanatici. In secondo luogo il paese è riuscito a realizzare una propria filiera di produzione di droni, cosa che lo rende relativamente autonomo per ciò che riguarda l’arma protagonista di questo conflitto.
A meno di sconvolgimenti interni nel paese, resi possibili dalla polarizzazione e dalla presenza di elementi estremisti, o del collasso logistico dell’esercito, l’Ucraina sarà in grado di rallentare l’avanzata russa almeno fino alla fine del 2025, forse perfino impedendo la conquista completa dei tre oblast rivendicati da Mosca e non ancora del tutto occupati (Cherson, Zaporozhe e l’alto Donbass).
Gli USA, da Biden a Trump - In questo momento gli Stati Uniti hanno effettuato un incredibile giravolta di 180°, divenendo da principale sponsor della guerra ad alfiere di una pace immediata. La riapertura delle linee diplomatiche con Mosca, quasi del tutto interrotte fin dai tempi dell’amministrazione Obama come rappresaglia alle umiliazioni subite in Crimea e Siria, sembra preludere a una nuova e inedita stagione di intese, lasciando all’UE il cerino in mano.
La strategia di Trump sembra improntata allo spirito dell’uomo d’affari: rinunciare a mettere in Ucraina gli scarponi per entrare con le ghette del tycoon. Lo stabilimento di asset economici americani in territorio ucraino rappresenterebbe per Kiev una garanzia che Mosca non ripeterebbe una nuova “operazione militare speciale” contro ciò che resterebbe di essa dopo un armistizio. Resta tuttavia da capire cosa offrirebbe Washington a Putin per garantire a sua volta che l’Ucraina non accederebbe mai alla NATO, anche con un ritorno dei Dem alla Casa Bianca nel 2028.
In ogni caso, in questo momento Washington si sta rivelando problematica per Kiev: tagliando finanziamenti e bloccando l’invio di armi, nonché – cosa peggiore – sospendendo l’indispensabile supporto C3I (comando, controllo, comunicazioni e informazioni) e l’assistenza tecnica all’esercito ucraino, gli Stati Uniti stanno letteralmente infilando un dito nel boccaglio di un subacqueo con lo scopo di costringerlo a emergere.
L’Europa, poche idee ma confuse - In questo panorama la compagine ibrida UE-NATO (meno USA) sembra in stato confusionale. La posizione corrente continua a essere quella relativa alla “integrità territoriale” dell’Ucraina, formula che non possiede alcun orizzonte di realismo in considerazione dell’attuale impossibilità di sloggiare i russi dai territori ucraini occupati e formalmente già annessi da Mosca.
Militarmente e industrialmente non in grado di funzionare come “arsenale” del governo di Kiev, l’UE sembra decisa a baloccarsi su progetti di lungo o lunghissimo periodo (la “difesa comune” o perfino una “bomba nucleare comunitaria”!) mentre le sorti del conflitto verranno decise nei prossimi mesi: dum Bruxellae consulitur, Ucrainam expugnatur.
I programmi di riarmo del continente, ammesso e non concesso che possano avere successo, visti i costi esorbitanti dell’energia necessaria per l’industria pesante, avrebbero effetto solo su tempi molto lunghi e non risolverebbero un altro problema di base: l’assenza di uomini validi e motivati disposti a operare i mezzi del futuro in una guerra di intensità paragonabile a quella russo-ucraina. Tutto questo per tacer degli oggettivi problemi di una “difesa comune” – comando e controllo, responsabilità politiche specie in campo nucleare, incompatibilità con le costituzioni nazionali etc. – che da decenni vengono evidenziate da osservatori d’ogni colore politico e che non sono in predicato d’essere risolti nemmeno davanti alla presunta minaccia di vedere i cavalli cosacchi abbeverarsi nelle fontane di Strasburgo.
La spaccatura comunitaria attorno all’Ungheria, minacciata di privazione del proprio diritto di voto, può inoltre preludere a un vero e proprio collasso dell’Unione, mentre le logiche nazionali, specialmente nei paesi dell’Europa orientale, potrebbero spingere a iniziative individuali nel segno del “sacro egoismo” o a riallineamenti in senso filo-trumpiano piuttosto che europeista. Una strada che potrebbe utilmente essere intrapresa anche da Roma, riscoprendo la sua tradizione di ponte fra est e ovest.
La Gran Bretagna prigioniera del Grande Gioco - Non più nell’UE, ancora nella NATO e retta da un governo ultra-wokeista, la Gran Bretagna continua a perseguire una politica anti-russa diretta erede delle rivalità fra imperi tardo-ottocentesca, il Grande Gioco. Il ruolo avuto da Londra nel fallimento delle trattative fra russi e ucraini della primavera 2022 è ormai assodato, e Downing Street sembra voler assumere il ruolo di capo-cordata di un fronte di irriducibili anti-russi ora che l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha liberato gli Stati Uniti dall’ingombrante incarico.
Va detto come inciso che l’idea stessa di “Ucraina” come realtà nazionale separabile dalla Russia e così utilizzabile come arma nei suoi confronti è qualcosa che prende corpo nell’Inghilterra della seconda metà del XIX secolo, quando le suggestioni dell’alba della geopolitica andavano a creare la forma mentis dei responsabili della politica estera britannica. Quello di poter staccare dalla “Moscovia” il territorio della “nuova Russia” conquistato da Pietro I e Caterina II è uno dei punti fermi d’ogni politica anti-russa dal Big Game in avanti.
Militarmente, tuttavia, il Regno Unito si trova in condizioni non differenti da quelle del resto del Vecchio Continente, con forze armate ridottissime, specializzatesi negli ultimi anni in guerre asimmetriche e con alle spalle una filiera industriale del tutto inadeguata. Si deve inoltre aggiungere che con una mossa incredibile, a meno di un mese dalle elezioni statunitensi, l’attuale premier Starmer ha vincolato l’arsenale nucleare britannico a quello USA, rendendo di fatto il Regno Unito una dipendenza americana per ciò che concerne le armi atomiche e i loro vettori.
Gli scenari possibili - La realtà è sempre più complessa delle analisi. Tuttavia proviamo a immaginare cinque possibili uscite della crisi ucraina, tenendo conto dei dati acquisiti, con la doverosa premessa che si tratta solo di modelli speculativi aperti a critiche e discutibili.
1 – Il piano Trump - La proposta ventilata dalla Casa Bianca impone un bagno di realismo per Kiev ma gli eviterebbe una “pace cartaginese” e anche i contraccolpi interni che la mettono a rischio guerra civile (lo scenario senza dubbio peggiore).
L’ipotesi di Trump è un cessate-il-fuoco propedeutico a una trattativa in cui l’Ucraina accetti alcune perdite territoriali. Gli Stati Uniti, garantirebbero Kiev da ulteriori attacchi russi stabilendo asset minerari sul territorio rimasto sotto sovranità ucraina.
Il principale scoglio è il fatto che in sede di trattativa, comunque, i russi pretenderanno la cessione per intero dei tre oblast di Cherson, Zaporozhe e Donbass ancora da conquistare. Sembra probabile invece che restituirebbero le aree occupate in quello di Charkov in cambio del ritiro ucraino dall’oblast di Kursk (sempre che questo saliente non venga schiacciato prima).
Al momento pare esclusa la possibilità che Mosca possa accettare la presenza di soldati europei in Ucraina, come ventilato da Starmer e Macron, in qualità di forze di pace e garanzia per Kiev ed è dunque possibile che queste truppe vengano fornite da paesi che si sono mantenuti neutrali nella contesa.
Resta da capire quali garanzie il Cremlino chiederà agli USA circa il fatto che la sua presenza nello sfruttamento minerario del sottosuolo ucraino si mantenga sempre e solo nell’ambito civile e, ça va sans dire, che Kiev rimanga fuori dalla NATO.
2 – Collasso dell’esercito ucraino - Qualora il piano Trump non dovesse realizzarsi, per pervicacia irriducibile dei contendenti sul campo, gli scenari alternativi appaiono alquanto grigi per Kiev.
Privato delle risorse americane, l’esercito ucraino potrebbe andare incontro a un collasso. Questa eventualità è stata ipotizzata molte volte nel corso degli ultimi tre anni, ma finora è sempre stata smentita dall’eccezionale volontà di resistenza dei soldati di Kiev unita al flusso di armi, munizioni, equipaggiamenti, addestramento e supporto C3I della NATO.
Tuttavia, come l’esempio della Grande Guerra ha dimostrato, se è possibile arretrare combattendo per ogni metro ceduto (caso tedesco, vedi più sotto lo scenario 5) è altrettanto possibile assistere a uno schianto improvviso (caso austroungarico). L’eventualità potrebbe essere determinata da una semplice reazione a catena, una sorta di “8 settembre” in salsa ucraina provocata dalla fine degli aiuti USA, o da una spallata russa portata su una sezione di fronte sufficientemente sguarnita da consentire una penetrazione in profondità e diretta alle retrovie del fronte che va da Zaporozhe a Kupjansk.
Il collasso ucraino lascerebbe mano libera ai russi che potrebbero penetrare molte decine di km nel territorio ucraino, anche fino al Dnepr. Più in forse è la possibilità di varcarlo a Cherson e puntare su Odessa e creare un corridoio verso la Transnistria.
In questa eventualità non è infatti escluso che l’UE-NATO possa a sua volta entrare in Ucraina occidentale, invocata dal governo di Kiev, ma con una mossa (non ufficialmente) concordata con Mosca, che così potrebbe vincere senza stravincere. Odessa, a poche ore dal confine con la NATO, verrebbe così messa in salvo, rendendo di fatto per i russi inutile cercare di raggiungerla ed esporsi oltre alle perdite preventivabili per un simile sforzo, anche al rischio di una umiliazione in caso di prevedibile sconfitta in questa “corsa”.
Le conseguenze di queste azioni di fatto dividerebbero il paese in una zona a est del Dnepr annessa alla Russia o trasformata in “Repubbliche popolari” satelliti del Cremlino (la “fascia di sicurezza” ventilata tempo fa da Medvedev), uno Stato ucraino residuale al centro, come cuscinetto, e una zona NATO negli oblast occidentali del paese, formalmente sotto sovranità ucraina. Il confitto si congelerebbe in una situazione “alla coreana”, senza una vera pace, cosa che garantirebbe a Mosca che Kiev non possa accedere alla NATO.
3 – Colpo di Stato a Kiev - La presenza di forze radicali e avvezze all’azione terroristica in Ucraina è una spada di Damocle sulla testa del governo di Zelensky. Non solo gli ambienti cosiddetti “neonazisti” ma anche i partigiani russi e formazioni ultras ucraine non neonaziste complicano il panorama e allungano sul paese la spaventosa ombra di una guerra civile.
L’eventualità che qualche formazione oltranzista possa decidere di eliminare l’attuale dirigenza ucraina è reale. Allo stesso modo è possibile che formazioni oltranziste possano decidere di non accettare una capitolazione del paese nelle mani dei russi (così infatti verrebbe percepita l’accettazione del piano Trump). Infine è già in corso, anche se sottotraccia, una forma di resistenza anti-governativa che si oppone alla leva obbligatoria anche con azioni terroristiche, nell’ovest del paese, mentre nell’est continuano a esistere cellule filo-russe sopravvissute ai sanguinosi repulisti fra 2015 e 2022.
L’eventualità di una guerra civile interna all’Ucraina si rifletterebbe sulle capacità di resistenza del fronte e consentirebbe ai russi di avanzare anche notevolmente. Tuttavia è dubbio che Mosca si accollerebbe un’invasione generale del paese, rischiando di dover poi gestire una polveriera con popolazioni oramai indurite dalla guerra e irriducibilmente ostili. La penetrazione di Mosca con tutta probabilità si arresterebbe alle aree finora rivendicate a – come nel caso precedente – punterebbe al più alla creazione di una zona di sicurezza e di Stati-fantoccio in quegli oblast dove le popolazioni possano ancora avere una qualche simpatia per la Russa, ai quali verrebbe demandato lo spiacevolissimo incarico di fronteggiare le guerriglie locali.
Il collasso politico dell’Ucraina potrebbe del resto spingere molte realtà locali a tentativi di secessione – la Rutenia transcarpatica, il Budjak o Bessarabia meridionale, la Bucovina, le province cattoliche occidentali… – creando situazioni in cui i paesi dell’Europa orientale (ma anche la Turchia, viste le comunitià tatare in Bessarabia) direttamente coinvolti a causa delle presenza di minoranze etniche in questi territori possano decidere di giocare come battitori liberi.
4 – Cessate il fuoco sulla linea del fronte attuale - Si tratta della proposta europea, ed è un’ipotesi alquanto improbabile perché rappresenterebbe una mezza sconfitta per Mosca: non solo infatti sancirebbe la rinuncia de facto alle città di Cherson e Zaporozhe e al Donbass settentrionale, ma permetterebbe a Kiev di riorganizzarsi in vista di una futura riscossa.
Salvo imprevisti rivolgimenti politici, la Russia non è abbastanza stanca da poter trovare questa soluzione come un compromesso accettabile, pertanto al momento non sembra volerla neppure prendere in considerazione.
Per i piani dei “falchi” UE-NATO questa sarebbe invece la soluzione migliore, nella speranza di riuscire a realizzare in tempi brevi un programma di riarmo continentale indipendente dagli USA, col quale rifornire nuovamente l’esercito ucraino in vista di una futura riscossa. Una sorta di riproposizione della tattica degli accordi di Minsk che però trova i russi, stavolta, recisamente diffidenti, scottati dalla pregressa esperienza.
5 – L’Ucraina resiste e arrivano gli europei - Non è improbabile infine immaginare che l’esercito ucraino, ancorché privo dell’assistenza americana, possa contendere ai russi il territorio ritirandosi con lentezza tale da consentire all’UE-NATO di concretizzare il proprio piano di riarmo.
In queste giornate i russi stanno avanzando verso Kupjansk, attorno a Toretsk (Dzerzhynsk) e Pokrovsk e in direzione di Lyman. Il saliente ucraino nell’oblast di Kursk è sotto particolare pressione e potrebbe essere schiacciato o perfino amputato con perdite territoriali nell’oblast di Sumy in tempi relativamente brevi.
Qualora, dunque, il conflitto dovesse continuare ben oltre la primavera 2025, come detto nello scenario 2, è realistico immaginare un tentativo di spallata russa da nord verso sud, per poter colpire il dispositivo fronte a est della difesa ucraina. Tuttavia un fallimento di questa offensiva darebbe forse tempo (e coraggio) agli europei per tentare l’invio di truppe in diretto sostegno dell’Ucraina, con lo scopo di fermare ulteriori avanzate russe in uno stallo.
Questa ipotesi è densa di incognite politiche inquietanti per il rischio concreto di allargamento del conflitto all’intero continente, rischio al quale gli Stati Uniti verosimilmente vorranno sottrarsi nell’ottica del neo-isolazionismo di Trump.
Emanuele Mastrangelo
Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", è redattore capo di "CulturaIdentità" ed è stato redattore capo di "Storia in Rete" dal 2006. Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, “Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia” e “Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione”).
Fonte: Centro Studi Machiavelli
Un’analisi della situazione non può prescindere da considerazioni strategiche sugli obbiettivi dei protagonisti e tattiche sulla natura rivoluzionaria di questo conflitto rispetto a ciò che finora si era visto sui campi di battaglia.
Le novità sul campo - La guerra russo-ucraina ha sorpreso moltissimi analisti. Iniziata come “passeggiata militare” dai russi, che presumibilmente immaginavano di poter ripetere uno scenario in stile “Cecoslovacchia 1968”, il conflitto è rapidamente degenerato nella prima guerra simmetrica e ad alta intensità combattuta da diversi decenni a questa parte. L’esercito ucraino, equipaggiato e addestrato dalla NATO e rimpolpato con reparti ad altissima motivazione ideologica costituiti con elementi politici estremisti, è riuscito ad arrestare l’esercito russo attorno a Kiev e Charkov e nel Donbass sulle postazioni fortificate fin dal 2015.
Nel momento in cui la guerra ha assunto la forma simmetrica di uno scontro con relativa parità di forze fra Russia e NATO (via Ucraina), sono scomparse dalle carte geografiche le “grandi frecce” delle operazioni in profondità. In particolare, accanto al timore imposto alle due contrapposte aviazioni da parte dei sistemi antiaerei, il carro armato, protagonista della guerra negli ultimi 105 anni, ha subito una drammatica eclissi determinata dalla comparsa di armi a relativo basso costo e alta efficacia come i missili spalleggiabili Javelin americani ma soprattutto grazie al vero game changer rivelato dal conflitto: il drone.
Il vecchio tank, estremamente costoso come pezzo e come equipaggio (tre-quattro uomini con necessità di lungo addestramento) è risultato surclassato dal drone, arma che può essere utilizzata da un singolo specialista ben al sicuro dal tiro nemico. Questo ha anche ridotto notevolmente il gap fra vecchi (e vecchissimi) modelli, come i T-55 sovietici, e mezzi relativamente più nuovi, come le penultime versioni del Leopard 2, poiché i loro avversari principali non sono più i carri nemici (minaccia prettamente frontale), ma i droni (minaccia omnidirezionale).
La possibilità poi di operare con i droni giorno e notte, l’impiego della sorveglianza satellitare e dei big data su internet ha inoltre eliminato quasi completamente l’effetto sorpresa, garantendo a entrambi gli schieramenti la possibilità di conoscere con congruo anticipo le mosse dell’avversario, identificando gli assembramenti di truppe e rifornimenti propedeutici a un’offensiva.
Costretti a giocare a carte scoperte, russi e ucraini hanno intrecciato le armi in un conflitto di trincea 2.0, in cui le aree urbane rivestono un ruolo inedito dall’avvento della guerra meccanizzata. Se infatti la premessa necessaria della blitzkrieg era evitare i centri abitati e conquistarli solo in seconda battuta, il drone e le munizioni intelligenti (come l’HIMARS americano) hanno reso l’attraversamento degli spazi aperti impensabile se non a costi insostenibili. Gli stessi trinceramenti risultano vulnerabili agli attacchi dal cielo condotti con micidiali droni antiuomo. Il combattimento di fanterie in aree urbane o boschive diventa quindi la sola strada praticabile e le eccezioni viste in alcune fasi del conflitto (come la liberazione di gran parte dell’oblast di Charkov nel settembre 2022 e l’incursione ucraina verso Kursk) sono state possibili solo a fronte di una relativa bassa densità del dispositivo di difesa russo. Altrove, come nel tentativo ucraino di raggiungere la costa del Mar d’Azov durante l’estate 2023, le puntate offensive corazzate si sono risolte in un massacro, non potendo del resto fare affidamento né nell’effetto sorpresa né nel vantaggio dell’iniziativa che avevano gli attaccanti nel passato, con il quale potevano garantirsi una relativa superiorità numerica nei settori di fronte in cui decidevano di aprire l’offensiva.
La conclusione è che questo conflitto, a meno del collasso di uno dei due contendenti – tattico o politico per gli ucraini, solo politico per i russi – non potrà procedere oltre che per lentissime avanzate. La stessa controffensiva che in queste ore l’esercito ucraino sta conducendo nell’abitato di Toretsk (che i russi hanno quasi completamente conquistato, rinominandolo con la vecchia nomenclatura sovietica di Dzerzhynsk), si sta sviluppando su una direttrice non più profonda di 500-1.000 metri, nonostante l’evidente impegno di forze dispiegato da Kiev.
La Russia e gli obbiettivi del Cremlino - Mosca in questo momento è in una posizione di oggettivo vantaggio. Ciò dà al Cremlino la possibilità di far valere le proprie ragioni più che gli altri belligeranti in sede di trattativa perché la sua mano di carte è migliore di quella degli avversari.
La Russia ha come obbiettivo primario quello di impedire definitivamente l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Questo risultato non può essere considerato compiutamente raggiunto senza la cosiddetta “denazificazione” del paese, che va intesa come una purga degli elementi più oltranzisti e antirussi negli apparati di Kiev.
Come obbiettivo secondario Mosca pretende il riconoscimento dell’annessione dei cinque oblast ucraini occupati fin dal 2014, Crimea innanzitutto, nei quali si sono tenuti dei referendum che impongono alla Russia la necessità di tenere il punto su di essi, compresa la parte di territorio rivendicata ma non ancora occupata, per questioni di prestigio interno ed estero.
Secondo diversi osservatori, l’occupazione integrale dell’Ucraina non è fra gli obbiettivi di Mosca, e tuttavia la creazione di una “fascia di sicurezza” negli oblast settentrionali del paese e di un’ipoteca sulla costa dalla foce del Dnepr a quella del Danubio restano opzioni più volte ventilate dai “falchi” del Cremlino, agitando queste ipotesi come minacce di una sorte più dura da imporre a Kiev a guerra finita.
Appare improbabile che la Russia riesca a puntare a una conquista di Nikolajev e Odessa, che tuttavia, per motivi sentimentali e strategici (la chiusura del Mar Nero a nord e l’apertura di un canale di terra verso la Transnistria) potrebbe diventare una priorità se si aprisse una finestra di opportunità.
Le carte in mano a Mosca - L’esercito russo si trova saldamente installato nel territorio ucraino e rispetto all’inizio del conflitto è ora in condizioni molto migliori, soprattutto per addestramento e coesione. Il dispositivo militare russo in Ucraina può disporre di alcune centinaia di migliaia di veterani esperti nelle nuove forme di combattimento di fanteria e con i droni.
La Russia gode di un enorme margine industriale sull’Ucraina e suoi suoi alleati ancora disposti a fornire mezzi e materiali. La sola produzione di munizioni d’artiglieria russa è stimata in diverse volte quella dell’intera NATO. Mosca può inoltre fare affidamento sulle linee di produzione della Corea del Nord, che si è rivelata tutt’altro che disprezzabile come fornitore di munizionamento.
La comparsa del missile a medio raggio ipersonico 'Oreshnik' ha inoltre dato a Mosca un’arma di deterrenza formidabile, in grado di scoraggiare qualunque aggressione diretta ai suoi obbiettivi vitali. L’'Oreshnik', infatti, è virtualmente inarrestabile e parrebbe dotato di una grande precisione sul bersaglio, caratteristiche che lo rendono l’arma ideale per rappresaglie ad alto impatto politico: è infatti possibile dichiarare il bersaglio, dando al nemico appena il tempo sufficiente per evacuare il personale prima che esso venga distrutto con testate non nucleari. Si infliggerebbe così un colpo non solo materiale ma anche morale all’avversario.
Infine, nonostante i primi segni di stanchezza nell’opinione pubblica russa, soprattutto a Mosca e San Pietroburgo, la Russia appare in grado di poter proseguire il conflitto con questi ritmi di logoramento reciproco verso l’Ucraina, in considerazione del fatto che una guerra perdurante è tutt’ora l’unica garanzia che il principale obbiettivo politico russo, impedire a Kiev di entrare nella NATO, sia soddisfatto. Inoltre diverse voci stanno affermando che la Russia stia accumulando una notevole massa di manovra per un colpo da nord verso sud, da realizzarsi con la buona stagione. Qualora i russi dovessero riuscire a ottenere una schiacciante superiorità numerica in quel settore, potremmo allora assistere alla ricomparsa delle “grandi frecce” sulla carta del conflitto.
Il fronte NATO-Ucraina - Le strategie degli alleati - Meno netti appaiono gli orizzonti strategici del fronte (ormai ex-fronte) NATO-Ucraina. Per Kiev l’obbiettivo ideale è la liberazione dell’intero territorio nazionale al 2014, Crimea inclusa. Un risultato che appare quasi completamente irrealistico, salvo svolte imponderabili.
A sua volta, l’obbiettivo dell’UE e della precedente amministrazione di Washington era infliggere a Mosca una sconfitta strategica di proporzioni tali da provocare un crollo interno della democrazia russa attraverso possibili colpi di Stato. Non pochi ambienti fra i più estremisti in Europa e Stati Uniti accarezzano addirittura la possibile balcanizzazione della Russia. Questi obbiettivi sembravano realistici all’inizio del conflitto, a portata di mano del combinato disposto della resistenza ucraina sul campo e delle sanzioni sul fronte interno.
Tuttavia la Russia si è dimostrata all’altezza della propria storia di grande incassatore e le ritirate strategiche – compresa la dolorosa perdita di Cherson e Kupjansk – non sono state in grado di suscitare più che qualche cambio di vertice fra ministero della Difesa e forze armate. La possibilità dunque di un golpe al Cremlino appare alquanto improbabile. Ciò, unito al cambio di passo alla Casa Bianca, ha portato a una biforcazione delle politiche degli alleati occidentali.
Gli obbiettivi ucraini - Per Kiev, dimostrata l’impossibilità di imporre alla Russia una sconfitta strategica sul campo, l’orizzonte è quello di arginare l’avanzata russa costringendo Mosca a pagare a prezzo salato ogni metro quadro conquistato. Diversi osservatori affermano che l’esercito ucraino starebbe ammassando riserve per tentare un nuovo colpo di mano in territorio russo, forse nell’oblast di Belgorod, mentre proprio in queste ore sul fronte orientale le forze ucraine hanno lanciato una controffensiva in forze a Toretsk, i cui risultati si misurano in poche centinaia di metri d’avanzata. Sfumata la possibilità di raggiungere con un blitz la centrale nucleare di Kursk, il saliente realizzato in quella parte di territorio russo resta una carta che Kiev può giocarsi in sede di trattativa, da scambiare con lo sgombero da parte russa di porzioni di terra ucraina.
Le carte in mano a Kiev - L’Ucraina si trova in una condizione drammatica. Se già prima del conflitto era il Paese più povero e corrotto del continente europeo, ora esso deve affrontare anche una disastrosa crisi demografica determinata non solo dalle perdite sul campo, paragonabili a quelle dell’Italia nella Prima guerra mondiale, ma anche dalla fuga in Europa e in Russia di milioni di persone.
L’improvviso taglio alle forniture militari e all’assistenza strategica da parte americana, decretata da Donald Trump dopo l’intemerata di Volodimir Zelensky alla Casa Bianca lo scorso 28 febbraio, priva Kiev della possibilità di pianificare ulteriori operazioni in grande stile e anche a livello logistico la fine dell’assistenza USA al ripristino delle infrastrutture elettriche potrebbe avere effetti letali sia sulla piccola produzione industriale del paese che sulla tenuta del fronte interno.
Al suo arco, tuttavia, l’Ucraina ha alcune frecce. Innanzitutto un esercito composto da veterani induriti e galvanizzati, non solo nei reparti politicamente più fanatici. In secondo luogo il paese è riuscito a realizzare una propria filiera di produzione di droni, cosa che lo rende relativamente autonomo per ciò che riguarda l’arma protagonista di questo conflitto.
A meno di sconvolgimenti interni nel paese, resi possibili dalla polarizzazione e dalla presenza di elementi estremisti, o del collasso logistico dell’esercito, l’Ucraina sarà in grado di rallentare l’avanzata russa almeno fino alla fine del 2025, forse perfino impedendo la conquista completa dei tre oblast rivendicati da Mosca e non ancora del tutto occupati (Cherson, Zaporozhe e l’alto Donbass).
Gli USA, da Biden a Trump - In questo momento gli Stati Uniti hanno effettuato un incredibile giravolta di 180°, divenendo da principale sponsor della guerra ad alfiere di una pace immediata. La riapertura delle linee diplomatiche con Mosca, quasi del tutto interrotte fin dai tempi dell’amministrazione Obama come rappresaglia alle umiliazioni subite in Crimea e Siria, sembra preludere a una nuova e inedita stagione di intese, lasciando all’UE il cerino in mano.
La strategia di Trump sembra improntata allo spirito dell’uomo d’affari: rinunciare a mettere in Ucraina gli scarponi per entrare con le ghette del tycoon. Lo stabilimento di asset economici americani in territorio ucraino rappresenterebbe per Kiev una garanzia che Mosca non ripeterebbe una nuova “operazione militare speciale” contro ciò che resterebbe di essa dopo un armistizio. Resta tuttavia da capire cosa offrirebbe Washington a Putin per garantire a sua volta che l’Ucraina non accederebbe mai alla NATO, anche con un ritorno dei Dem alla Casa Bianca nel 2028.
In ogni caso, in questo momento Washington si sta rivelando problematica per Kiev: tagliando finanziamenti e bloccando l’invio di armi, nonché – cosa peggiore – sospendendo l’indispensabile supporto C3I (comando, controllo, comunicazioni e informazioni) e l’assistenza tecnica all’esercito ucraino, gli Stati Uniti stanno letteralmente infilando un dito nel boccaglio di un subacqueo con lo scopo di costringerlo a emergere.
L’Europa, poche idee ma confuse - In questo panorama la compagine ibrida UE-NATO (meno USA) sembra in stato confusionale. La posizione corrente continua a essere quella relativa alla “integrità territoriale” dell’Ucraina, formula che non possiede alcun orizzonte di realismo in considerazione dell’attuale impossibilità di sloggiare i russi dai territori ucraini occupati e formalmente già annessi da Mosca.
Militarmente e industrialmente non in grado di funzionare come “arsenale” del governo di Kiev, l’UE sembra decisa a baloccarsi su progetti di lungo o lunghissimo periodo (la “difesa comune” o perfino una “bomba nucleare comunitaria”!) mentre le sorti del conflitto verranno decise nei prossimi mesi: dum Bruxellae consulitur, Ucrainam expugnatur.
I programmi di riarmo del continente, ammesso e non concesso che possano avere successo, visti i costi esorbitanti dell’energia necessaria per l’industria pesante, avrebbero effetto solo su tempi molto lunghi e non risolverebbero un altro problema di base: l’assenza di uomini validi e motivati disposti a operare i mezzi del futuro in una guerra di intensità paragonabile a quella russo-ucraina. Tutto questo per tacer degli oggettivi problemi di una “difesa comune” – comando e controllo, responsabilità politiche specie in campo nucleare, incompatibilità con le costituzioni nazionali etc. – che da decenni vengono evidenziate da osservatori d’ogni colore politico e che non sono in predicato d’essere risolti nemmeno davanti alla presunta minaccia di vedere i cavalli cosacchi abbeverarsi nelle fontane di Strasburgo.
La spaccatura comunitaria attorno all’Ungheria, minacciata di privazione del proprio diritto di voto, può inoltre preludere a un vero e proprio collasso dell’Unione, mentre le logiche nazionali, specialmente nei paesi dell’Europa orientale, potrebbero spingere a iniziative individuali nel segno del “sacro egoismo” o a riallineamenti in senso filo-trumpiano piuttosto che europeista. Una strada che potrebbe utilmente essere intrapresa anche da Roma, riscoprendo la sua tradizione di ponte fra est e ovest.
La Gran Bretagna prigioniera del Grande Gioco - Non più nell’UE, ancora nella NATO e retta da un governo ultra-wokeista, la Gran Bretagna continua a perseguire una politica anti-russa diretta erede delle rivalità fra imperi tardo-ottocentesca, il Grande Gioco. Il ruolo avuto da Londra nel fallimento delle trattative fra russi e ucraini della primavera 2022 è ormai assodato, e Downing Street sembra voler assumere il ruolo di capo-cordata di un fronte di irriducibili anti-russi ora che l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha liberato gli Stati Uniti dall’ingombrante incarico.
Va detto come inciso che l’idea stessa di “Ucraina” come realtà nazionale separabile dalla Russia e così utilizzabile come arma nei suoi confronti è qualcosa che prende corpo nell’Inghilterra della seconda metà del XIX secolo, quando le suggestioni dell’alba della geopolitica andavano a creare la forma mentis dei responsabili della politica estera britannica. Quello di poter staccare dalla “Moscovia” il territorio della “nuova Russia” conquistato da Pietro I e Caterina II è uno dei punti fermi d’ogni politica anti-russa dal Big Game in avanti.
Militarmente, tuttavia, il Regno Unito si trova in condizioni non differenti da quelle del resto del Vecchio Continente, con forze armate ridottissime, specializzatesi negli ultimi anni in guerre asimmetriche e con alle spalle una filiera industriale del tutto inadeguata. Si deve inoltre aggiungere che con una mossa incredibile, a meno di un mese dalle elezioni statunitensi, l’attuale premier Starmer ha vincolato l’arsenale nucleare britannico a quello USA, rendendo di fatto il Regno Unito una dipendenza americana per ciò che concerne le armi atomiche e i loro vettori.
Gli scenari possibili - La realtà è sempre più complessa delle analisi. Tuttavia proviamo a immaginare cinque possibili uscite della crisi ucraina, tenendo conto dei dati acquisiti, con la doverosa premessa che si tratta solo di modelli speculativi aperti a critiche e discutibili.
1 – Il piano Trump - La proposta ventilata dalla Casa Bianca impone un bagno di realismo per Kiev ma gli eviterebbe una “pace cartaginese” e anche i contraccolpi interni che la mettono a rischio guerra civile (lo scenario senza dubbio peggiore).
L’ipotesi di Trump è un cessate-il-fuoco propedeutico a una trattativa in cui l’Ucraina accetti alcune perdite territoriali. Gli Stati Uniti, garantirebbero Kiev da ulteriori attacchi russi stabilendo asset minerari sul territorio rimasto sotto sovranità ucraina.
Il principale scoglio è il fatto che in sede di trattativa, comunque, i russi pretenderanno la cessione per intero dei tre oblast di Cherson, Zaporozhe e Donbass ancora da conquistare. Sembra probabile invece che restituirebbero le aree occupate in quello di Charkov in cambio del ritiro ucraino dall’oblast di Kursk (sempre che questo saliente non venga schiacciato prima).
Al momento pare esclusa la possibilità che Mosca possa accettare la presenza di soldati europei in Ucraina, come ventilato da Starmer e Macron, in qualità di forze di pace e garanzia per Kiev ed è dunque possibile che queste truppe vengano fornite da paesi che si sono mantenuti neutrali nella contesa.
Resta da capire quali garanzie il Cremlino chiederà agli USA circa il fatto che la sua presenza nello sfruttamento minerario del sottosuolo ucraino si mantenga sempre e solo nell’ambito civile e, ça va sans dire, che Kiev rimanga fuori dalla NATO.
2 – Collasso dell’esercito ucraino - Qualora il piano Trump non dovesse realizzarsi, per pervicacia irriducibile dei contendenti sul campo, gli scenari alternativi appaiono alquanto grigi per Kiev.
Privato delle risorse americane, l’esercito ucraino potrebbe andare incontro a un collasso. Questa eventualità è stata ipotizzata molte volte nel corso degli ultimi tre anni, ma finora è sempre stata smentita dall’eccezionale volontà di resistenza dei soldati di Kiev unita al flusso di armi, munizioni, equipaggiamenti, addestramento e supporto C3I della NATO.
Tuttavia, come l’esempio della Grande Guerra ha dimostrato, se è possibile arretrare combattendo per ogni metro ceduto (caso tedesco, vedi più sotto lo scenario 5) è altrettanto possibile assistere a uno schianto improvviso (caso austroungarico). L’eventualità potrebbe essere determinata da una semplice reazione a catena, una sorta di “8 settembre” in salsa ucraina provocata dalla fine degli aiuti USA, o da una spallata russa portata su una sezione di fronte sufficientemente sguarnita da consentire una penetrazione in profondità e diretta alle retrovie del fronte che va da Zaporozhe a Kupjansk.
Il collasso ucraino lascerebbe mano libera ai russi che potrebbero penetrare molte decine di km nel territorio ucraino, anche fino al Dnepr. Più in forse è la possibilità di varcarlo a Cherson e puntare su Odessa e creare un corridoio verso la Transnistria.
In questa eventualità non è infatti escluso che l’UE-NATO possa a sua volta entrare in Ucraina occidentale, invocata dal governo di Kiev, ma con una mossa (non ufficialmente) concordata con Mosca, che così potrebbe vincere senza stravincere. Odessa, a poche ore dal confine con la NATO, verrebbe così messa in salvo, rendendo di fatto per i russi inutile cercare di raggiungerla ed esporsi oltre alle perdite preventivabili per un simile sforzo, anche al rischio di una umiliazione in caso di prevedibile sconfitta in questa “corsa”.
Le conseguenze di queste azioni di fatto dividerebbero il paese in una zona a est del Dnepr annessa alla Russia o trasformata in “Repubbliche popolari” satelliti del Cremlino (la “fascia di sicurezza” ventilata tempo fa da Medvedev), uno Stato ucraino residuale al centro, come cuscinetto, e una zona NATO negli oblast occidentali del paese, formalmente sotto sovranità ucraina. Il confitto si congelerebbe in una situazione “alla coreana”, senza una vera pace, cosa che garantirebbe a Mosca che Kiev non possa accedere alla NATO.
3 – Colpo di Stato a Kiev - La presenza di forze radicali e avvezze all’azione terroristica in Ucraina è una spada di Damocle sulla testa del governo di Zelensky. Non solo gli ambienti cosiddetti “neonazisti” ma anche i partigiani russi e formazioni ultras ucraine non neonaziste complicano il panorama e allungano sul paese la spaventosa ombra di una guerra civile.
L’eventualità che qualche formazione oltranzista possa decidere di eliminare l’attuale dirigenza ucraina è reale. Allo stesso modo è possibile che formazioni oltranziste possano decidere di non accettare una capitolazione del paese nelle mani dei russi (così infatti verrebbe percepita l’accettazione del piano Trump). Infine è già in corso, anche se sottotraccia, una forma di resistenza anti-governativa che si oppone alla leva obbligatoria anche con azioni terroristiche, nell’ovest del paese, mentre nell’est continuano a esistere cellule filo-russe sopravvissute ai sanguinosi repulisti fra 2015 e 2022.
L’eventualità di una guerra civile interna all’Ucraina si rifletterebbe sulle capacità di resistenza del fronte e consentirebbe ai russi di avanzare anche notevolmente. Tuttavia è dubbio che Mosca si accollerebbe un’invasione generale del paese, rischiando di dover poi gestire una polveriera con popolazioni oramai indurite dalla guerra e irriducibilmente ostili. La penetrazione di Mosca con tutta probabilità si arresterebbe alle aree finora rivendicate a – come nel caso precedente – punterebbe al più alla creazione di una zona di sicurezza e di Stati-fantoccio in quegli oblast dove le popolazioni possano ancora avere una qualche simpatia per la Russa, ai quali verrebbe demandato lo spiacevolissimo incarico di fronteggiare le guerriglie locali.
Il collasso politico dell’Ucraina potrebbe del resto spingere molte realtà locali a tentativi di secessione – la Rutenia transcarpatica, il Budjak o Bessarabia meridionale, la Bucovina, le province cattoliche occidentali… – creando situazioni in cui i paesi dell’Europa orientale (ma anche la Turchia, viste le comunitià tatare in Bessarabia) direttamente coinvolti a causa delle presenza di minoranze etniche in questi territori possano decidere di giocare come battitori liberi.
4 – Cessate il fuoco sulla linea del fronte attuale - Si tratta della proposta europea, ed è un’ipotesi alquanto improbabile perché rappresenterebbe una mezza sconfitta per Mosca: non solo infatti sancirebbe la rinuncia de facto alle città di Cherson e Zaporozhe e al Donbass settentrionale, ma permetterebbe a Kiev di riorganizzarsi in vista di una futura riscossa.
Salvo imprevisti rivolgimenti politici, la Russia non è abbastanza stanca da poter trovare questa soluzione come un compromesso accettabile, pertanto al momento non sembra volerla neppure prendere in considerazione.
Per i piani dei “falchi” UE-NATO questa sarebbe invece la soluzione migliore, nella speranza di riuscire a realizzare in tempi brevi un programma di riarmo continentale indipendente dagli USA, col quale rifornire nuovamente l’esercito ucraino in vista di una futura riscossa. Una sorta di riproposizione della tattica degli accordi di Minsk che però trova i russi, stavolta, recisamente diffidenti, scottati dalla pregressa esperienza.
5 – L’Ucraina resiste e arrivano gli europei - Non è improbabile infine immaginare che l’esercito ucraino, ancorché privo dell’assistenza americana, possa contendere ai russi il territorio ritirandosi con lentezza tale da consentire all’UE-NATO di concretizzare il proprio piano di riarmo.
In queste giornate i russi stanno avanzando verso Kupjansk, attorno a Toretsk (Dzerzhynsk) e Pokrovsk e in direzione di Lyman. Il saliente ucraino nell’oblast di Kursk è sotto particolare pressione e potrebbe essere schiacciato o perfino amputato con perdite territoriali nell’oblast di Sumy in tempi relativamente brevi.
Qualora, dunque, il conflitto dovesse continuare ben oltre la primavera 2025, come detto nello scenario 2, è realistico immaginare un tentativo di spallata russa da nord verso sud, per poter colpire il dispositivo fronte a est della difesa ucraina. Tuttavia un fallimento di questa offensiva darebbe forse tempo (e coraggio) agli europei per tentare l’invio di truppe in diretto sostegno dell’Ucraina, con lo scopo di fermare ulteriori avanzate russe in uno stallo.
Questa ipotesi è densa di incognite politiche inquietanti per il rischio concreto di allargamento del conflitto all’intero continente, rischio al quale gli Stati Uniti verosimilmente vorranno sottrarsi nell’ottica del neo-isolazionismo di Trump.
Emanuele Mastrangelo
Redattore del blog del Centro Studi Machiavelli "Belfablog", è redattore capo di "CulturaIdentità" ed è stato redattore capo di "Storia in Rete" dal 2006. Cartografo storico-militare, è autore di vari libri (con Enrico Petrucci, “Iconoclastia. La pazzia contagiosa della cancel culture che sta distruggendo la nostra storia” e “Wikipedia. L'enciclopedia libera e l'egemonia dell'informazione”).
Fonte: Centro Studi Machiavelli