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Caso Israele: il diritto internazionale o vale sempre o non vale mai

25-11-2024 20:27 - Opinioni
Amb. Marco Carnelos Amb. Marco Carnelos
GD - Roma25 nov. 24 - L'ambasciatore Marco Carnelos, già capo missione italiana in Iraq, è intervenuto con un articolo nel sito Dagospia.com sulle polemiche sollevate dalla pronuncia della Corte Penale Internazionale dell'Aia contro Israele.
«La vicenda del mandato di cattura della Corte Penale Internazionale (CPI) nei confronti dell’attuale Primo Ministro e dell’ex Ministro della Difesa israeliani, Netanyahu e Gallant, sta sollevando scalpore a livello internazionale e animerà anche il confronto in seno alla Ministeriale Esteri del G7 che si apre oggi a Fiuggi presieduta dal Ministro Tajani. Quest’ultimo sarà chiamato al difficile compito di conciliare posizioni distanti sulla questione tra i membri del Gruppo. Come se non bastasse, la questione del mandato di cattura ha purtroppo già generato scontate distinzioni anche all’interno Governo italiano.
Si può quindi comprendere con quanta riluttanza mi accingo ad accogliere nuovamente una tua esortazione a fare un po' di chiarezza sulla questione, consapevole dei potenziali rischi di dileggio ed intimidazioni.
Mai come in questa occasione la chiarezza appare necessaria dal momento che nelle ultime 72 ore ho sentito e ho letto cose che tranne poche lodevoli eccezioni (l’Ambasciatore Castellaneta sabato scorso su "Il Messaggero") fanno rabbrividire da un punto di vista giuridico e di conoscenza generale della materia.
In questa occasione, il livello di incultura giuridica in ambito politico e giornalistico è arrivato a livelli tali che ormai l’utilizzo della parola “sentenza” per definire quanto è stato deciso dalla CPI prevale nel lessico, aspetto che in un paese normale indurrebbe quanti parlano a sproposito, e sono purtroppo in tanti, a tornare a ripetere gli esami di diritto o, peggio, ad iscriversi a corsi ad hoc presso le nostre numerose Università.
La Camera di Consiglio della CPI non ha emesso una sentenza!! Ha risposto positivamente a una richiesta di autorizzazione ad emanare un mandato di cattura presentata a suo tempo (maggio scorso) dal Procuratore della Corte a carico di 5 individui: il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’allora Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e 3 leader di Hamas: il Capo dell’Ufficio Politico dell’Organizzazione Ismail Haniyeh, il Capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar, e il Capo dell’ala militare dell’Organizzazione (nota come Ezzedin al Qassem) Mohammed Deif.
Nel frattempo, la “giustizia” israeliana è stata più celere di quella internazionale, e quindi dal momento che Haniyeh e Sinwar non sono più tra noi, la Corte ha autorizzato l’emissione del mandato di arresto solo per i tre individui ancora in vita.
Qualche maldestro esperto giuridico si è divertito a schernire la Corte per aver autorizzato un mandato di cattura a carico di un defunto, Deif per l’appunto. Il problema è che quest’ultimo è defunto solo per il Governo Netanyahu, ma non sussiste una conferma indipendente che il leader militare di Hamas abbia raggiunto gli altri due compagni, o meglio non ancora; a quanto risulta non c’è un cadavere e, tantomeno, un certificato di morte, se poi emergeranno la Corte rettificherà la sua ordinanza; gli organismi giurisdizionali, se sono seri, non agiscono sulla base del sentito dire ma attraverso fatti accertati e corroborati dagli atti.
Innanzitutto, contrariamente a quello che in molti pensano e che alcuni deliberatamente, e manipolativamente aggiungerei, sostengono, la CPI non ha iniziato ad indagare sui comportamenti di Israele dall’8 ottobre 2023, all’indomani dell’efferato attacco terroristico di Hamas, ma dal 2021; ovvero ben sei anni dopo esserne stata formalmente richiesta dall’Autorità Nazionale Palestinese che fin dal 2015 aveva ratificato lo Statuto di Roma della CPI e ne aveva accettato la giurisdizione sui propri territori di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est che Israele occupa illegalmente fin dal 5 giugno 1967.
Sei anni di attesa per aprire un’indagine nei confronti di esponenti politici israeliani smontano l’accusa mossa alla CPI di essere un’entità antisemita come in molti si sono affrettati a qualificarla.
Semmai la Corte ha atteso troppo, gli osservatori attenti del dramma israelo-palestinese sanno benissimo che prima del 7 ottobre 2023 Israele ne ha combinate di tutti i colori in Palestina nel silenzio e nell’ignavia delle democrazie occidentali che non perdono un’occasione per invocare e magnificare quello che hanno l’impudenza di definire “ordine mondiale basato sulle regole”.
Ad ulteriore conferma di quanto pretestuose siano alcune invettive nei confronti della Corte lanciate da parte israeliana e americana va rilevato come non tutti i capi di imputazioni richiesti dal Procuratore nei confronti di Netanyahu e Gallant siano stati accolti.
La CPI, quindi, indaga sui comportamenti di Israele dal 2021 perché probabilmente ha rinvenuto nelle azioni poste in essere da questo Paese nei territori sopra citati la possibile violazione di fattispecie che contravvengono il diritto internazionale ed il diritto internazionale umanitario che gli attori statuali in quell’area, incluso lo stesso Stato di Israele, affermano di riconoscere e di sentirsi vincolati a rispettare.
Per coloro che hanno commentato le decisioni della CPI senza averne letto lo Statuto, né, tantomeno, i provvedimenti è opportuno ricordare che la Corte viene investita da uno o più soggetti titolati a farlo (gli Stati che ne hanno firmato e ratificato lo Statuto tra i quali figura anche la Palestina) su possibili violazioni di diritto, il Procuratore della Corte apre un’indagine che si protrae nel tempo e poi si trova davanti a tre ulteriori fasi che passano attraverso la Camera preliminare: chiedere di continuare le proprie indagini, chiedere di archiviare o chiedere che venga emesso un mandato di cattura nei confronti di individui presunti autori di crimini internazionali.
La Corte Penale Internazionale pertanto processa gli individui non gli Stati. Di questi ultimi si occupa la Corte internazionale di Giustizia che al momento sta esaminando se sussistano gli elementi per ritenere lo Stato di Israele colpevole di genocidio per quanto sta accadendo a Gaza.
Una volta che il Procuratore chiede l’emissione di un mandato di cattura quest’ultimo deve essere autorizzato dalla Camera preliminare della Corte, autorizzazione che si è avuta nei giorni scorsi. Dopodiché i destinatari dei mandati di arresto, qualora si trovino in uno degli Stati membri dello Statuto di Roma dovrebbero essere arrestati e tradotti all’Aja con la collaborazione proprio degli Stati parte della Corte Penale Internazionale.
Pertanto, Netanyahu e Gallant dovranno tenere sempre a portata di mano una carta geografica aggiornata con gli Stati che riconoscono la giurisdizione della Corte prima di pianificare i loro prossimi viaggi all’estero; per Deif il problema non sussiste: è probabile che non sia mai uscito da Gaza e, se ancora in vita, è altamente improbabile che lo farà in futuro.
Soltanto una volta celebrato e conclusosi l’eventuale processo – se tutto va bene tra qualche anno - avremmo quella che esponenti politici e mediatici italiani chiamano impropriamente da giorni la sentenza.
Ma Netanyahu e Gallant possono stare tranquilli anche perché la CPI non prevede il processo in contumacia, piuttosto, il Primo Ministro farebbe bene a preoccuparsi molto di più della giustizia del suo paese che sembrerebbe stia stringendo sempre più la morsa nei suoi confronti, benché per ipotesi di reato di gran lunga meno gravi di quelle contestategli dalla CPI.
Caro Dago, veniamo ora ad una delle più bizzarre tra le accuse mosse contro la Corte, quella di aver equiparato gli esponenti di un Governo democraticamente eletto a dei terroristi. Fatta la doverosa premessa - obbligatoria visto il livello del dibattito in Italia - che la legge è uguale per tutti, occorre rilevare che israeliani e palestinesi sono stati accusati di reati diversi, e quelli a carico di questi ultimi sono assai più gravi. Quindi nessuna equiparazione formale.
Nel caso di Mohammed Deif sono stati trovati motivi ragionevoli per imputarlo dei crimini contro l’umanità di omicidio, sterminio, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale e dei crimini di guerra di omicidio, trattamento crudele, presa di ostaggi, oltraggio alla dignità personale, stupro e altre forme di violenza sessuale.
Nei casi di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant sono stati trovati motivi ragionevoli per accusarli dei crimini di guerra, come usare l’inedia come metodo di guerra (blocco degli aiuti) e di attacco intenzionale contro civili e dei crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione, ed altri atti disumani come perpetratori diretti o in collaborazione con altri.
Tutto ciò premesso, è evidente che tra esponenti politici democraticamente eletti come quelli israeliani e i membri di un’organizzazione terroristica come Hamas vi siano delle differenze ma queste non possono sorvolare su eventuali crimini che dovessero essere commessi.
Mentre da terroristi incalliti il disprezzo delle regole è un qualcosa che è assolutamente prevedibile, quasi scontato aggiungerei, e da perseguire senza riserve; è del tutto inaccettabile un comportamento analogo da parte di esponenti democratici e che si professano tali dai quali è legittimo attendersi un senso di responsabilità e l’osservanza delle regole senza sconti. Le regole devono valere per tutti ma per chi si professa democratico ed osservante della rule of law come gli esponenti israeliani devono valere ancora di più.
Venendo ad un’altra critica mossa alla Corte, ovvero quella che vi sarebbe un difetto di giurisdizione dal momento che Israele non ha aderito allo Statuto di Roma che l’ha istituita, merita rilevare che la Corte non intende processare gli esponenti politici israeliani per crimini commessi nel loro territorio ma per averli commessi al di fuori, ovvero a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est (anche perché altrimenti la Corte non avrebbe giurisdizione dal momento che Israele non è parte dello Statuto di Roma). Da questo punto di vista la Corte si è attribuita tale giurisdizione dopo una disamina assai accurata della questione. Ad Israele è tuttavia riconosciuta dalla Corte stessa la possibilità di eccepire sul difetto di giurisdizione durante il dibattimento.
Infine, allargando, e concludendo, il ragionamento, osservo che tutto quello che potrebbe soggiacere dietro le iniziali decisioni della CPI è probabilmente la corretta applicazione del diritto all’autodifesa legittimamente invocato da Israele all’indomani del massacro del 7 ottobre 2023.
In nessuno dei suoi pronunciamenti la Corte ha finora negato ad Israele tale diritto, questo è peraltro riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’ONU, ma è plausibile che nel rilevare i crimini attribuiti in particolare ai due esponenti politici israeliani la Corte abbia intravisto un esercizio di tale diritto del tutto sproporzionato rispetto a quanto previsto dal Diritto Internazionale. La proporzionalità tra offesa e autodifesa è ormai un principio cardine consolidato da tempo nella prassi giuridica internazionale che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare.
Anche nelle più ancestrali società tribali il principio della proporzionalità tra offesa subita e difesa operata era in qualche modo osservato ed è un principio presente anche nelle Sacre Scritture ebraiche dove si legge “occhio per occhio e dente per dente” e non 40 occhi per un occhio e 40 denti per un dente.
Caro Dago, in sintesi, tralasciando per un momento la perdurante violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese - che resta la causa primaria del conflitto sotto esame in connubio con la perdurante occupazione (e, da ultimo, strisciante annessione) del territorio ove questo Stato palestinese dovrebbe sorgere - il nodo del contendere resta la sproporzione dell’autodifesa operata da Israele all’indomani del 7 ottobre 2023.
Le due massime istanze giurisdizionali internazionali competenti in questo caso, la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia, dovranno in futuro pronunciarsi su due questioni completamente diverse: da un lato, la Corte Penale Internazionale dovrà dire, qualora il processo a loro carico venga celebrato, se i due esponenti politici israeliani oggi destinatari dei mandati di cattura si sono macchiati di crimini di guerra e contro l’umanità; l’altra, la Corte Internazionale di Giustizia dovrà invece valutare se il Governo israeliano sia responsabile del crimine di genocidio. È possibile che entrambe, solo dopo eventuali fasi dibattimentali – molto diverse - in cui la difesa farà valere tutte le ragioni che intenderà fare valere, giungano a conclusioni diverse da quelle sostenute dall’accusa.
La delusione e la rabbia che serpeggia in Israele e in diverse comunità ebraiche sparse nel mondo sono comprensibili, ma proprio per onorare al meglio e tenere viva la memoria di quei 6 milioni di ebrei sterminati durante la Shoa che l’attuale Governo israeliano, e qualunque altro Governo israeliano, dovrebbero partecipare ai processi ed essere pronti ad accettare coraggiosamente il giudizio di Tribunali internazionali pienamente legittimi invece di invocare, in questo caso a sproposito, l’antisemitismo.
La sensibilità e la volontà di perseguire i responsabili dei crimini che la CPI intende accertare hanno ricevuto un importantissimo impulso proprio dai tragici eventi del secondo conflitto mondiale nei quali la Shoà figura come un evento unico per dimensione e ferocia nella storia dell’umanità.
Non bisognerebbe mai dimenticare che lo Stato di Israele nel 1948 è nato anche a seguito di una decisione di quell’Organizzazione che oggi, purtroppo, viene ingiustamente criticata dalla classe politica israeliana, e che è nota come Nazioni Unite».

Amb. Marco Carnelos
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/diritto-internazionale-vale-sempre-non-vale-mai-ndash-rsquo-ex-415898.htm


Fonte: Dagospia
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